Piena dignità alla famiglia composta da conviventi
Al convivente di fatto si applica la disciplina dell’impresa familiare.
Con la Sentenza n. 148/24, la Corte di Cassazione ha dichiarato incostituzionale l’art. 230 bis, comma III, c.c., nella parte in cui non include il convivente di fatto tra i soggetti considerati familiari, limitandosi al coniuge, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo. Di conseguenza, è stata dichiarata incostituzionale anche la disciplina dell’art. 230 ter c.c. (introdotto dalla Legge Cirinnà), che garantiva al convivente di fatto una tutela sensibilmente inferiore rispetto a quella prevista per il coniuge.
La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con particolare riferimento agli articoli 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione, evidenziando l’ingiusta esclusione del convivente more uxorio dalla nozione di familiare. La Corte Costituzionale, nel proprio giudizio, ha osservato come tanto la legislazione nazionale quanto la giurisprudenza, sia costituzionale che comunitaria, abbiano ormai riconosciuto piena dignità alla famiglia formata da conviventi di fatto.
Secondo la Corte, i diritti fondamentali devono essere riconosciuti senza discriminazioni. In particolare, il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione, considerati diritti essenziali, devono essere garantiti anche ai conviventi di fatto. La prestazione lavorativa all’interno dell’impresa familiare, sia da parte del coniuge che del convivente, richiede quindi uguale protezione, evitando il rischio che si trasformi in lavoro gratuito.
La Cassazione ha ribadito che la tutela del lavoro è un principio fondamentale, indispensabile per affermare la dignità della persona, sia come individuo che come membro della collettività, a partire dal nucleo familiare. Pertanto, ha ritenuto irragionevole non estendere anche al convivente di fatto i benefici riconosciuti ai familiari nell’impresa familiare.
L’ampliamento della tutela prevista dall’art. 230 bis c.c. ha comportato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230 ter c.c., che riservava al convivente di fatto una protezione più limitata, escludendo il riconoscimento del suo contributo lavorativo all’interno della famiglia e privandolo dei diritti partecipativi nella gestione dell’impresa familiare, con conseguente discriminazione ingiustificata rispetto al coniuge.